Nell’inferno del pachinko (Made in Japan #18)

Ho capito quanto fosse azzeccata l’associazione dell’inferno con il pachinko quando sono entrato in una delle tante sale di Tokyo dedicate al diabolico gioco. Corridoi assordanti di luci intermittenti dove giocatori di ogni età, fianco a fianco, fissano queste piccole sferette metalliche di questi incroci aberranti di flipper e slot-machine.

In the Hell of patchinko è la registrazione di un concerto tenuto a Tokyo nel 1991 dai francesi Mano Negra che, per la loro musica incrocio di generi, coniarono il termine patchanka, titolo tra l’altro del loro esplosivo album d’esordio.

Echi d’Africa (Made in Japan #17)

Akira Ishikawa, batterista jazz, classe 1934, compie un viaggio in Africa nel 1970. Comincia a incorporare nelle sue composizioni elementi della musica locale. Dopo alcuni album di transizione Akira registra nel 1972 l’album Uganda accreditato ai Count Buffalo. Kimio Mizutani, alla chitarra, butta benzina sul fuoco delle ritmiche imbastite dalle percussioni e caratterizza questo dai dischi successivi di Ishikawa, piú virati verso il jazz.

L’asse Roma-Tokyo-Berlino (Made in Japan #16)

Here we are / Stuck by this river / You and I / Underneath a sky that’s ever falling down, down, down / Ever falling down

Metti la cornice di Villa Massimo a Roma. Metti Carsten Nicolai da Berlino, nome d’arte Alva Noto. Metti il maestro Ryuchi Sakamoto e il suo pianoforte. E metti pure Brian Eno e la sua meravigliosa By this river qui presentata dai due musicisti in una versione che ne esalta la scheletrica bellezza. C’è bisogno d’altro?

Through the day / As if on an ocean Waiting here / Always failing to remember why we came, came, came / I wonder why we came

You talk to me / As if from a distance / And I reply / With impressions chosen from another time, time, time / From another time

Rapid Eye movement (Made in Japan #15)

I Boredoms del cantante Yamatsuka Eye hanno scritto alcuni dei capitoli piú radicali del noise nipponico. Il loro sound percussivo e fantasioso, dove la sorpresa continua è la norma, trova, dopo una serie di album assolutamente ostici, una forma fruibile in Vision Creation Newsun del 1999, un fragorosissimo caleidoscopio sonoro.

Piú reale del vero (Made in Japan #14)

Ciclicamente certi suoni tornano di moda. L’effetto del revival é spesso trito e triste con sfumature che vanno dallo scimmiottamento alla parodia. Ci sono gruppi invece che riescono a impossessarsi di un genere e a sfornare dischi che, anche se fuori tempo massimo, avrebbero potuto competere con gli originali. Un esempio potrebbe essere la psichedelia di Out dei White Heaven. Ascoltatevi i nove minuti di Falling Stars End, terza traccia dell’album, tra reminiscenze West Coast e echi rollingstoniani, e poi ditemi se vi pare un disco inciso nel 1991.

Nomen omen (Made in Japan #13)

La genealogia è chiara. Boris è un brano dei seminali ed imprescindibili Melvins (e non mi dilungo sul fatto che senza il trio di Aberdeen non ci sarebbero stati i Nirvana). Boris è il nome scelto da tre ragazzi giapponesi per il loro gruppo e che esordiranno nel 1996 con Absolutego, un’unica traccia di 65 minuti, un flusso di doom nel nome dei padri putativi.

In religioso ascolto (Made in Japan #12)

Tanti musicisti degli anni sessanta andarono in India (due nomi per tutti, Beatles e Bob Dylan) o in Nordafrica (Rolling Stones) in cerca di ispirazione e, spesso e volentieri, sostanze psicotrope su cui sorvoliamo. In altri paesi c’era già una tradizione millenaria cui attingere e incorporare nella propria musica. Nel 1970 il supergruppo People, messo su dalla casa discografica A&R e capitanato dal chitarrista Kimio Mizutani, registra CeremonyBuddha meet rock. Al rock di matrice anglosassone si sovrappongono in maniera molto naturale i suoni cerimoniali buddisti. Un esperimento nato per fare cassa ma per una volta anche qualitativamente valido.

La via del guerriero (Made in Japan #11)

Un sicario afroamericano dedito all’allevamento di piccioni e alla lettura dell’hagakure (il codice di comportamento dei samurai) è al soldo della malavita di origine italiana. Da presupposti così bislacchi prende il via Ghost dog, un bel film di Jim Jarmusch, uscito nel 1999 e con protagonista Forest Whitaker.

Il film è sorretto dall’eccellente colonna sonora curata da RZA dei Wu Tang Clan, il collettivo rap newyorkese innamorato dei film di arti marziali. Disco quindi americano ma imbevuto della cultura e dell’etica del Sol Levante.

Modernariato (Made  in Japan #10)

In tanti cominciarono a rovistare tra i dischi degli anni sessanta di library, lounge, exotica quando i più pratici compact-disc soppiantarono i vinili. Vinili che finivano nei mercatini dell’usato con le loro copertine umide e logore, i loro graffi e imbarcamenti. 

Una dematerializzazione sfacciata del supporto che sarebbe culminata nell’ectoplasmatico mp3. Ma anche la scoperta di una miniera d’oro per chi cercava brani da campionare e fare taglia e cuci di lacerti sonori. 

I nuovi apprendisti stregoni proliferarono dando vita a tutto un sottobosco di generi. Dalle nostre parti si cominciò a parlare di modernariato che è forse l’etichetta che preferisco. E nel calderone del modernariato ci sta bene il giapponese Tomoyuki Tanaka che, sotto il moniker Fantastic Plastic Machine, prepara i suoi cocktail sonori nonostante non abbia ripetuto i successi del fortunato esordio di Dear Mr. Salesman (1997),con alla voce Maki Nomiya dei Pizzicato Five e che gli valse la partecipazione al Coechella Festival di quell’anno.

Nudi e crudi (Mare in Japan #9)

Un disco fatto essenzialmente di cover in genere rischia di essere presto dimenticato o, al limite, di essere ricordato solo per la copertina. Nel caso di Anywhere dei Flower Travellin’ Band la copertina è da urlo con i componenti della band in veste di biker ma senza vestimento alcuno. Ma anche il disco è memorabile: quattro lunghe cover, di Black Sabbath, Animals, King Crimson, Muddy Waters eseguite al fulmicotone e capaci di tenere botta agli originali. Ascoltare per credere.