Un gran bel disco dai suoni garage e psichedelici per il terzo, e infinitamente meno noto, caleidoscopio, dopo quelli americani e inglesi. I Kaleidoscope di Colours provenivano dalla Repubblica Dominicana e comprendevano elementi da Porto Rico e Spagna. Furono lanciati sul mercato messicano e quindi ci si riferisce a loro come Kaleidoscope (Mex).
La tenue Let the world wash in degli I Luv Wight è, o meglio doveva essere, l’inno del festival di Wight del 1970. Nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe inframmezzato le esibizioni dei vari gruppi nei cinque giorni della manifestazione fino al disvelamento finale dell’identità dei fantomatici autori: i Fairfield Parlour di Peter Daltrey ed Eddie Pumer. Potenzialmente una bella mossa per risollevare le sorti di un gruppo perseguitato da una sfortuna sfacciata. Ma neppure quella volta le cose non girarono per il verso giusto e il singolo rimase in un cassetto.
Da quel punto in poi anche la storia dei Fairfield Parlour fu destinata a chiudersi: con un album doppio pronto e nessuna casa discografica disposto a pubblicarlo, nel 1972, i nostri dichiararono la resa.
Una resa arrivata per frustrazione dopo che già in precedenza, quando si chiamavano Kaleidoscope, erano stati costretti a lasciare l’etichetta Fontana non capace di promuoverli come avrebbero meritato: i loro due unici LP, Tangerine Dream e Faintly Blowing sono, come da inflazionata ragione sociale del gruppo, due splendidi esempi di luccicante psichedelia british.
Difficile emergere artisticamente a Tel Aviv. Così tre ragazzi israeliani muovono verso Amsterdam e riescono a trovare asilo presso l’etichetta belga Crammed che produce, è il 1981, il loro omonimo esordio. Il gruppo, composto dalla bassista Malka Spigel, il cantante Samy Birnbach e il chitarrista e tastierista Berry Sakharof si distingue nel calderone new wave / post-punk per il sapore mediorientale dei suoni. Ballate da fermi con i Minimal Compact.
“E se è vero, com’è vero certamente, / Che c’è stato qualche caso precedente, Stare dentro è molto meno divertente / Uno non vede mai dov’è / E allora dimmi tu che gusto c’è. / Ma a dorso di balena / Vedi dove vai, / Si fanno incontri che non speravi mai.”
Narra la Navigatio Sancti Brendani, scritta da un anonimo nel X secolo, le peripezie marinaresche di San Brandano, monaco irlandese vissuto quattro secoli addietro, e dei suoi compagni in cerca dell’isola dell’Eden. Non manca l’incontro con la balena che i monaci scambiano per un’isola e sul cui dorso si fermano a celebrare la Pasqua.
Secondo una credenza popolare russa è l’intero mondo a poggiare su tre balene. E a questo si riferiva Lenin quando parlava delle tre balene del bolscevismo: le otto ore di lavoro, la confisca delle proprietà terriere e una repubblica democratica. Quello stesso Lenin che un giorno portò come esempio virtuoso le lotte operaie di un piccolo paesino reggiano non incluso nelle mappe. Il paesino si chiamava Cavriago e avrebbe in seguito dato i natali a Orietta Berti.
Nel 1980 Orietta incide per Domenica In la canzone La balena e il cortocircuito spazio-temporale è completo.
Cerco di rompere il silenzio ovattato di questo sabato di coprifuoco con gli intonarumori di Luigi Russolo, pittore e musicista futurista che potrebbe giustamente reclamare i diritti di copyright su tanta musica industriale venuta nei decenni a seguire. Largo allora a crepitatori, gorgogliatori, rombatori, ronzatori, scoppiatori, sibilatori, stropicciatori e ululatori.
Troppo spesso la mia smania di completista mi porta ad ascoltare intere discografie, con tanto di rarità e scarti più o meno evitabili. Ma di fronte alla messe sterminata di album realizzati da Sun Ra devo dichiararmi sconfitto in partenza e abbandonarmi all’ascolto pescando qua e là che in fondo ci si azzecca sempre: che si caschi nel jazz più convenzionale, nel free-jazz o in contesti più sperimentali si casca sempre bene perché sotto gli abiti spazial-orientaleggianti di quel gran mattacchione, che ha sostenuto per una vita di essere andato su Saturno e con una sicumera tale da finire nel ’71 a tenere un corso di filosofia a Berkeley, si nascondeva un musicista geniale.
La pianista Alice McLeod ha già un matrimonio fallito alle spalle e una figlia da tirare su da sola quando conosce John Coltrane. Nell’arco di nemmeno cinque anni i due si sposeranno, avranno tre figli, lei lo accompagnerà al piano quando nel ’66 McCoy Tyner romperà il sodalizio con Trane non condividendo una musica in territori sempre più free.
Quando un cancro al fegato stroncherà nel luglio del ’67 il grande sassofonista Alice saprà comunque portare avanti la sua ricerca musicale, caratterizzata anche dall’impiego, inusuale in ambito jazz, dell’arpa.
Un ottimo esempio è l’album Ptah, the El Daoud, in compagnia di Pharoah Sanders, Joe Henderson, Ron Carter e Ben Riley.
Le riprese di Down by Law (per noi del consunto stivale Daunbailò) avvicinarono quei tre impossibili personaggi che rispondono ai nomi, rigorosamente in ordine alfabetico di Roberto Benigni, John Lurie e Tom Waits. L’anedottica attorno alla pellicola di Jarmusch è sconfinata e con risvolti, giocoforza visti i protagonisti, grotteschi e le amicizie maturate sincere. Tanto che quando due anni dopo Benigni realizzerà Il piccolo diavolo non soloriserverà una parte nel cast a John ma affiderà al fratello Evan Lurie, pianista e suo compagno nei Lounge Lizards. E per completare il cerchio ci sarà alla chitarra Marc Ribot, collaboratore storico di Tom Waits. Una colonna sonora da riscoprire.
Dici Roland Garros e pensi al tennis e mai mi sarei aspettato che il Roland Garros cui è dedicato il prestigioso torneo di Parigi è stato un pioniere dell’aeronautica, morto durante il primo conflitto mondiale.
Il suo diario, edito con il titolo L’uomo che baciava le nuvole è più avvincente di un romanzo e ripercorre le tappe incoscienti ed eroiche dei primi voli. Io, avrei preferito come titolo Nuvole e Blériot come la canzone di Giorgio Canali dedicata a quel pioniere aviere primo trasvolatore della Manica e in seguito costruttore dei velivoli pilotati da Garros per le sue imprese.
Nel diario traspare a ogni pagina il senso di provvisorietà della vita e la febbrile ricerca di superare i limiti, che siano fisici o meccanici, d’altitudine o di distanza, come la traversata del Mediterraneo, dalla Provenza a Tunisi, a bordo di aeromobili dispettosi e più incerti delle ali di cera di Icaro.
“God save strawberry jam and all the different varieties
Preserving the old ways from being abused”
In genere ci si ricorda dei Kinks solo per il cattivissimo riff di You really got Me, decida il lettore se classificarlo come hard, heavy o protometal. Un riff vecchio di oltre mezzo secolo, il singolo uscì infatti nell’agosto del ’64, che conquistò la vetta delle classifiche britanniche e che sarebbe bastato, ad altre band, a giustificarne un’intera carriera.
In realtà, per la band di Ray Davies, si trattò di un grosso equivoco. La casa discograficala Pye voleva dal gruppo a tutti i costi una hit ma il talento dei Kinks stava altrove, nella capacità di radiografare impietosamente la società britannica. E il loro capolavoro in tal senso arrivò nel ’68 con il concept album The Village Green Preservation Society, una collezione di gemme pop che attingevano al repertorio del vaudeville, del music hall, delle bande militari. Disco che, inutile dirlo, fu un fiasco dal punto di vista commerciale e che a maggior ragione è bene risarcire con un ascolto.