Come il soffitto di una chiesa bombardata

Immagino l’anonimo lettore che nella primavera del 2019 leggerà del sottoscritto che nell’estate del ’96 ascoltava Emidio Clementi declamare di come nell’inverno dell’85 ascoltasse un disco di Jim Carroll uscito nell’80, magari in autunno. E tutti e quattro, Carroll, Clementi, lo scrivente e l’anonimo lettore accomunati dall’essersi sentiti, prima o poi, come il soffitto della chiesa bombardata di Wicked Gravity.
Gran personaggio, Jim Carroll, ragazzino cattolico di origine irlandese dal precoce talento letterario e grande scommessa del basket, presto persa per una rapida discesa negli inferi delle droghe, a un certo punto reinventatosi rocker. L’esordio discografico della Jim Carroll Band è del 1980 con Catholic Boy. Jim ha già superato i trent’anni, splendidi i testi e musica nel segno di un trascinante punk-rock sulle orme dell’amica Patti Smith (inevitabile direi, vista la partecipazione al disco di Allan Lanier, compagno della Smith e musicista dei Blue Oyster Cult).

Il sindacato dei sogni

La punta di diamante del Paisley Underground, revival losangelino di psichedelia imbastardita dal punk, furono senza dubbio i Dream Syndicate di Steve Wynn. Nel sindacato dei sogni confluì l’impeto sottoproletario dei punk e l’effervescenza musicale degli hippy californiani. The Days of Wine and Roses, The Medicine Show e il live At Raji’s i dischi da ascoltare assolutamente.

Vietato prendersi sul serio

Ogni tanto devo riascoltare il primo disco dei Wolfango, un disco che non pretende niente nel suo ostentato e voluto analfabetismo musicale: autentico grado zero, vero sberleffo punk ad ogni pretesa di catalogaziane e/o classificazione e/o giudizio. Il disco uscito nel 1996 per l’etichetta dei C.S.I. è una sequenza di canzoni in cui gli unici strumenti sono un basso distortissimo e mezza batteria suonata nell’occasione da Bruno Dorella (protagonista anche con gli ottimi Ronin, OvO, Bachi da Pietra). Le voci del bassista Marco e della moglie Sofia più il figlioletto rompiscatole che all’epoca imperversava sul palco a rendere ancora più divertente ed esasperante il tutto. Scorie assortite di Nirvana e CCCP su testi demenziali non è dato sapere se di proposito oppure no.

Punk e Islam

“Kebabträume in der Mauerstadt / Türk-kultur hinter Stacheldraht / Neu Izmir in der DDR / Atatürk der neue Herr / miliyet für die Sowjetunion / in jeder Imbißstube ein Spion / ein ZK-Agent aus Türkei / Deutschland Deutschland / Alles ist vorbei / Wir sind die Türken von morgen” (*)

Quando nel 1961 sulla faccia di Berlino comparve l’oscena cicatrice del muro il quartiere di Kreuzberg diventò un vero e proprio cul de sac. Tre lati su quattro si erano ritrovati ad avere come orizzonte cemento armato e filo spinato. Così Kreuzberg si svuotò e fu presto occupato da immigrati turchi e punk di mezza Europa. Fu in questo clima che nacquero esperienze musicali eterogenee dai D.A.F. ai nostrani CCCP. E fu qui, in Oranienstrasse che sul palco del piccolo locale SO36 passarono i martelli pneumatici degli Einsturzende Neubauten e il sudore e gli sputi di Iggy Pop e Nick Cave.

(*) Sogni di kebab nella città del Muro / la cultura turca dietro il filo spinato / Una nuova Smirne nella DDR / Atatürk è il nuovo dominatore / milita per l’Unione Sovietica / una spia in ogni birreria / un agente del ZK dalla Turchia / Germania, Germania, è tutto finito / Siamo i turchi di domani)

Tintinnabuli

Non sarebbe stato difficile per gli apostoli aver vissuto nell’Unione Sovietica. Lì ci sono persone meravigliose come loro

Il 1977 è l’anno del punk. Johnny Rotten canta ‘Io sono l’anticristo’.  L’Estonia invece è ancora una delle quindici repubbliche dell’URSS. Arvo Pärt, dopo sette anni di silenzio, stanco della dodecafonia e della musica atonale, ricomincia a comporre. Riparte dalla musica sacra. La scompone, la semplifica. Ricerca una continua riduzione ai minimi termini. Ne uscirà Tabula Rasa. Un’opera di una sacralità tutta umana, fatta di boschi e montagne affacciate sul mare nell’ora del tramonto.

Ho incontrato la musica di Arvo Pärt per puro caso, parecchi anni fa. Fu amore all’istante per una musica impalpabile come un soffio ma capace di travolgere l’anima. Anche di un essere musicalmente incolto come il sottoscritto. Facile entusiasmarsi per il ritornello punk. Per i due-accordi-due e le quattro parole vomitate addosso al pubblico. È musica che si ascolta con la pancia, buona per mettere in subbuglio le viscere ma ancora troppo in basso per raggiungere mente e cuore.

 Nato nel 1935 a Paide, un minuscolo paesino della piccola repubblica baltica, comincia a suonare gli strumenti che aveva in casa e che la seconda guerra mondiale aveva dimenticato di prendere: il pianoforte, l’oboe, le percussioni. Dal 1958 comincia a comporre le prime opere seguendo le prime avanguardie del novecento: serialità, atonalità, dodecafonia. Comincia ad avere molti attestati di stima di qua e di là della cortina di ferro. Poi il lungo silenzio che lo porterà alla creazione dei tintinnabuli.

 “I tintinnabuli sono una zona in cui a volte vago quando sto cercando delle risposte -sulla mia vita, sulla mia musica, sul mio lavoro. Nelle mie ore buie, ho la certa sensazione che ogni cosa al di fuori di questa unica cosa non ha significato. La complessità e la multisfaccettatura mi confondono solamente, e devo ricercare l’unità. Ma cos’è questa unica cosa? E come posso trovare la mia strada verso di essa? Tracce di questa cosa perfetta appaiono in molte sembianze – ed ogni cosa che non è importante scivola via. Tintinnabuli è così. Eccomi solo col silenzio. Ho scoperto che è abbastanza quando anche una sola nota è magnificamente suonata. Questa unica nota, o un battito calmo, o un momento di silenzio, mi confortano. Lavoro con pochissimi elementi – una voce, due voci. Costruisco con i materiali più primitivi – con l’accordo perfetto, con una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane ed è perciò che chiamo questo tintinnabuli“.

 Il Cantus in memoriam Benjamin Britten è il primo risultato di questo nuovo modo di procedere cui seguiranno i due magnifici movimenti di Tabula Rasa, Ludus e Silentium, e poi negli anni dopo l’abbandono forzato dell’Unione Sovietica, dove la musica del grande compositore estone diviene motivo di ostracismo ed ostilità, altre grandi composizioni come Fratres, Spiegel im Spiegel, Festina Lente, Für Alina fino alle composizioni di musica sacra, genere quasi dimenticato per i musicisti dell’ultimo secolo.

 Una musica ottima per difendersi dal rumore che sovrasta quotidianamente ogni azione e che si amplifica nel formicaio impazzito degli ultimi giorni dell’anno.

A volte è meglio tacere

Non ho mai scritto dei californiani Chrome di Helios Creed. C’è una ottima recensione di Francesco Nunziata sul sito di Ondarock che consiglio vivamente di leggere. E poi c’è il disco, Half Machine Lip Moves, anno 1979, un concentrato micidiale di generi tra brandelli di psichedelia, garage e i nuovi modi del punk e dell’industrial. Da sentire e basta.

 

Questione di punteggiatura

Tanto tempo fa  (ma proprio tanto tanto tempo fa) ascoltai gli Ultravox: non solleticarono il mio orecchio e finirono nel dimenticatoio. Solo molto tempo dopo scoprii che avevo sentito il gruppo sbagliato: prima del noioso synth-pop degli Ultravox di Midge Ure c’erano stati gli strepitosi Ultravox!, con quel punto esclamativo che non è il commento dell’ampolloso scrivente ma parte integrante della denominazione sociale del gruppo allora capitanato da John Foxx e che omaggiava gli imprescindibili tedeschi Neu! di Michael Rother  e Klaus Dinger.

Gli Ultravox! durarono lo spazio di due ottimi dischi prima di perdere insieme al punto esclamativo anche John Foxx e l’aura magica degli esordi. Il primo album, omonimo, prodotto da Brian Eno un attimo prima di fare armi e bagagli in direzione di Berlino in compagnia di Robert Fripp e David Bowie e il secondo, Ha! Ha! Ha!, prodotto da Steve Lillywhite già coéquipier di Eno nella produzione del primo LP, sono un riuscitissimo impasto di glam-rock, punk ed elettronica.