Con le luci spente è meno pericoloso?

Mi sono imbattuto in una cover di Smells Like Teen Spirit dei Nirvava eseguita da Robert Glasper. Robert Glasper suona il piano e pubblica per l’etichetta Blue Note, nome quasi sinonimo di jazz. Scorrono le dita sui tasti del piano, mia figlia si addormenta, a me viene voglia di pogare.

Incuriosito, ho ascoltato altre cose di Glasper, potabilissime ma nessuna che mi abbia scaldato il cuore se si eccettua un’altra cover, stavolta dei Radiohead,  Packt Like Sardines in a Crushd Tin Box.

La mia riflessione però non va all’onesto Glasper e al suo jazz pieno di contaminazioni, ma a come, pur depurata di tutto, il brano simbolo della band di Seattle, il capolavoro nato da un tragico equivoco, Cobain ignorava che lo spirito adolescenziale, il Teen Spirit, era un banale deodorante femminile, conservi tutta la sua magmatica forza.

I fantocci di carne

Il massimo successo dei Meat Puppets  è l’album Too High to Die, pubblicato nel 1994 dopo il clamoroso successo del concerto unplugged dei Nirvana che per l’occasione ospitarono i fratelli Kirkwood,  insieme due terzi della band di Phoenix, ed eseguirono ben tre brani dal loro secondo LP, risalente al 1983 e pubblicato dopo un ipercinetico primo EP che condensava cinque tracce nello spazio di complessivi cinque minuti e sedici secondi e un primo album dove stavolta si incrementava il minutaggio ad una media di un minuto e mezzo a brano!

Inseriti a torto nel carrozzone del grunge la loro musica era quella dell’hardcore mediato dal country e dalla psichedelia. Ricordo una intervista dell’epoca in cui dichiaravano che mentre a Seattle c’erano i salmoni, in Arizona c’era il sole che rendeva tutti schizzati. E non si può che convenirne e andarsi a riascoltare quel Meat Puppets II che tanto piaceva a Kurt Cobain.

Mezzi cingolati

Ci si ricorda sempre dei Melvins perché erano di Aberdeen, stato di Washington, la stessa città di Kurt Cobain, e dei loro rapporti con i Nirvana: dal batterista Dale Crover, presente in alcune tracce di Bleach, al frontman Buzz Osborne che presentò Krist Novoselic al biondo cantante assurto poi, suo malgrado, ad agnello sacrificale su cui edificare la rumorosa chiesa del grunge. Ma la stessa musica dei Nirvana, specie agli esordi, deve tanto alla lezione dei Melvins, power-trio dal passo cingolato, un carrarmato che marcia da decenni su ritmi sabbathiani come nel paradigmatico EP Lysol del 1992, un unico flusso di trenta durissimi minuti di musica.

L’urgenza di un secondo, un quarto di secolo fa

C’era una volta il grunge, Seattle, i cadaveri straziati e mangiati degli Andrew Wood, dei Cobain e dei Layne Staley. C’era un calderone di dischi belli e brutti. Invero pochi reggono al setaccio del tempo trascorso. Tra questi Vs, il secondo disco dei Pearl Jam di Eddie Vedder e soci. Disco diretto e immediato, splendidamente rappresentato dal muso contro la recinzione della pecora in copertina, che preferisco agli anthem di Ten, il disco di esordio, e alla produzione successiva.

Non dire gatto

Prima del grunge ci furono i Gronge. E ci sono ancora dopo oltre trent’anni sempre misconosciuti e sempre alle prese col loro technopunkcabaret (la definizione è loro e così non ho la solita angoscia di dover appioppare l’etichetta giusta). La loro musica coraggiosa e bislacca e per il sottoscritto spesso insopportabile veicolava testi mai banali come nel capolavoro dedicato a Giovanni Trapattoni e al suo calcio operaio. E all’epoca celebre per richiamare dalla panchina i suoi giocatori con gli inconfondibili fischi a due dita. Non era all’epoca ancora emigrato in Germania dove, alla guida del Bayern Monaco,  diventerà virale il suo sfogo in tedesco maccheronico contro il malcapitato Strunz.

Il giardino che non c’è più

 

Cinque anni fa scrissi un pesantissimo post contro Chris Cornell che potete leggere sul mio vecchio blog .  Non rinnego in queste ore tragiche quanto scritto: l’amore non ricambiato rende folli, e i Soundgarden erano i miei eroi molto più di ogni altra band di Seattle. E dopo i Melvins i più sabbathiani del lotto (ovviamente nessuno potrebbe essere più sabbathiano dei Melvins!).

La notizia della morte di Cornell mi ha lasciato esterrefatto. Nella mia testa si sono sovrapposti un sacco di ricordi. Cose probabilmente minime ma dense di significati. Come quell’intervista che lessi tanti anni fa in cui Chris Cornell dichiarava di essersi tagliato i capelli per fare un dispetto ai discografici che vedevano nella sua lunga chioma la chiave del successo del gruppo.  RIP Chris!

 

Dulli e pupe

Nuovo disco in uscita per gli Afghan Whigs e come sempre capita per le band che ho amato negli anni novanta mi assale il timore che questo improvviso ritorno possa deludermi. Nell’attesa godiamoci il passato.

Inseriti a forza nel carrozzone del grunge solo perché avevano cominciato a incidere con la SubPOP il gruppo di Greg Dulli non è mai riuscito ad emergere come avrebbe pure meritato per quel singolarissimo rock morboso e malsano iniettato di soul e di Motown. Testi intrisi di sesso, droga e morte e ritmiche lussureggianti concentrati soprattutto nei due album ‘Congregation’ (1992, splendida copertina, su fondo rosso un neonato bianco tra le braccia di una donna nera, evidente richiamo alle radici musicali del rock) e ‘Gentlemen’ (1993). Fu il video di Debonair tratto da quest’ultimo disco a farmeli conoscere e a convincermi a comprare il CD che sulle prime mi deluse: ben lontana era la loro musica dal grunge imperante di allora. Col tempo ho poi imparato ad amarli visceralmente come viscerale è sempre stato il cantato di Dulli diventato noto alle nostre latitudini anche per le collaborazioni con gli Afterhours di Manuel Agnelli e in tandem con Mark Lanegan nei Gutter Twins.