Giù il cappello

“Space is just an ashtray / Flesh is my best wheel / The atmosphere’s my highway / And the landscape’s my next meal” (da Me and My Woman)

Ci deve essere qualcosa se non va se rimani nell’ombra dopo aver cantato in uno dei dischi più famosi (e venduti) dei Pink Floyd e dopo che addirittura i Led Zeppelin ti dedichino una canzone, Hats off to (Roy) Harper, nel loro terzo superbo disco, quello della svolta folk-rock e ti vogliano con loro in tour.

Roy Harper, folk-singer eclettico e lunatico, giunse alla Harvest nel ’69 con alle spalle già tre dischi ma il meglio doveva ancora venire con Flat Baroque and Beserk contenente la polemica e antirazzista I hate the white man e le quattro lunghe tracce di Stormcock  con il contributo chitarristico di S. Flavius Mercurius bizzarro nome dietro cui si celava per meri problemi contrattuali Jimmy Page, gli Zeppelin incidevano per la concorrente Atlantic.

Non aver paura del buio alla fine della tempesta

Dopo lo straordinario successo di vendite di The Dark Side of the Moon la Harvest decise di riunire in un doppio LP intitolato A Nice Pair i primi due album, The Piper at the Gates of Dawn e A Saucerful of Secrets, quelli barrettiani per intenderci e, di conseguenza, gli unici registrati dai Pink Floyd a detta di un barrettiano come colui che verga queste righe. L’artwork della Hipgnosys includeva una serie di foto tra cui quella di una squadra di calcio dalle divise bianche e blu tra cui militavano i membri del gruppo che, appassionati di football avevano messo su il Pink Floyd Football Club.  La foto in questione li ritraeva prima di una sonora sconfitta per 4 a 0 con una squadra di marxisti londinesi.

La passione per il calcio di Waters e soci si era già palesata in precedenza sull’album Meddle : in coda alla bellissima Fearless si può ascoltare You’ll Never Walk Alone la canzone simbolo del Kop, la tifoseria del Liverpool durante il sentito derby cittadino con i rivali dell’Everton e di sicuro la canzone simbolo degli stadi d’oltremanica. La canzone originariamente fu scritta dalla coppia Hammerstein e Rodgers per il musical Carousel nel 1945 e portata al successo in Inghilterra da un gruppo di Liverpool, non dai Fab Four, ma dai meno noti Gerry & the Pacemakers nel 1963.

Dalle stalle alle stelle (o viceversa)

“siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro” (Bandiera bianca, Franco Battiato)

Così come è molto difficile non conoscere le hit Figli delle stelle e Tu sei l’unica donna per me è altrettanto facile non conoscere la vita precedente di Alan Sorrenti, una vita che comprende due ottimi dischi sperimentali Aria (1972) e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto (1973) entrambi pubblicati dalla Harvest, la stessa etichetta dei Pink Floyd, e che vedono la presenza, nel primo LP, di un musicista del calibro di Jean Luc Ponty, violinista presente in più di un disco di Frank Zappa e, nel secondo LP, del flautista David Jackson dei Van der Graaf Generator.
Nel mezzo, prima di prendere la strada della musica da discoteca con annessa rapida ascesa e rovinosa caduta e un presente di apparizioni assolutamente imbarazzanti su cui è inutile infierire, il tentativo di cimentarsi con la canzone tradizionale napoletana, la classica Ditencello vuje, in chiave prog.

Il terzo orecchio

La Third Ear Band nasce in quel ricettacolo di meraviglie che fu l’UFO Club di Londra, un locale durato poco meno di un anno ma sul cui palco si alternarono  più volte Pink Floyd, Soft Machine, Tomorrow, Arthur Brown e compagnia cantante. Ciò che distingueva la Third Ear Band era l’inconsueta strumentazione più idonea a un ensemble da camera che a un gruppo rock:  oboe, viola, violoncello.

Due anni dopo la chiusura dell’UFO, siamo nel 1969,  arriva il disco d’esordio, Alchemy, cui seguirà l’anno dopo il secondo, omonimo album, che rimarrà come uno dei frutti più maturi e succosi della psichedelia britannica. L’album è composto da quattro lunghe tracce dedicate ai quattro elementi della tradizione  aristotelica in cui si incontrano, dando vita a un’ottima miscela, suoni orientali ed occidentali.

Bandiera rosa

1977. I Pink Floyd non ci sono più da un pezzo. Voi direte che nel ’77 hanno pubblicato per l’etichetta Harvest Animals e due anni dopo anche The Wall, ma quelle sono solo le nevrosi in musica di Roger Waters. Sono anche grandi dischi ma dischi di musicisti in gabbia, i ruggiti innocui di bestie allo zoo.
Fuori invece accade altro, esplodono i disordini non solo musicali del punk.
Ogni casa discografica cerca di accaparrarsi qualche nuova band. La Harvest ci prova con questo quartetto uscito dalla scuola d’arte di Watford. I critici, poveri scemi, li ribattezzano Punk Floyd per sottolineare l’assenza nei Wire della purezza punk. Non si sono accorti che i Wire non sono punk. Ed è più facile trovare tracce barrettiane qui che altrove (sentitevi l’inizio di French film blurred). I Wire sono andati già oltre: Pink Flag, Chairs Missing e 154 sono tre dischi uno più bello dell’altro (senza contare A-Z l’esordio solista del cantante Colin Newman).

Danze per scongiurare l’eclissi

Esponenti di rilievo della scena trance-rock californiana i Red Temple Spirits durarono il tempo di due album fondendo mirabilmente la psichedelia pinkfloydiana e il dark britannico: il loro misticheggiante Dancing to restore an eclipsed moon licenziato nel 1988 è un piccolo capolavoro da preservare assolutamente.

I cuor di bue

“Give me moonshine, just let me die”
I Panama Limited Jug Band non sono americani. Nonostante il nome, che richiama una canzone folk degli anni ’30 dedicata ai Panama Limited, i treni che collegavano nel profondo degli Stati Uniti a inizio novecento Chicago e Saint Louis, e nonostante la musica, che attinge a piene mani al folk-blues del Delta e che nel secondo album si connota di prepotenti connotati beefheartiani. I Panama Limited Jug Band sono inglesi e, come tanti gruppi inglesi, ebbero la fortuna di essere lanciati dall’impagabile DJ John Peel riuscendo così a incidere due album per la Harvest. In particolare il secondo ‘Indian summer’ con una splendida copertina realizzata dalla Hipgnosis (quelli della mucca dei Pink Floyd) è un gran disco e purtroppo anche l’epitaffio di un’ottima band.

Vacche magre (ovvero Khun Narin è meglio dei Pink Floyd)

Ho riascoltato il famoso disco della mucca, una delle geniali copertine dello studio Hipgnosis: la semplice foto della frisona Lulubelle III  che pascola nella verde campagna inglese senza alcuna indicazione del nome del gruppo o del titolo dell’album. Nella sterminata apologetica dei Pink Floyd, si narra che i funzionari della EMI chiesero al fotografo Storm Thorgerson se il suo intento fosse quello di far fallire la loro casa discografica.

Il primo lato del vinile si compone di una lunga suite orchestrale, Atom Heart Mother, arrangiata dal compositore Ron Geesin mentre nel secondo lato trovano posto tre delicate canzoni folk equamente divise tra Waters, Gilmour e Wright e la lunga Alan’s Psychedelic Breakfast.

Ma il folk e la psichedelia in questo disco finiscono per apparire artefatti e troppo cerebrali rispetto a quella naif di Khun Narin. Sissignori, Khun Narin! Non avete la più pallida idea di chi sia Khun Narin? Khun Narin suona un phin elettrificato, il phin è uno strumento tipico della Thailandia e del Laos. Attorno a lui ruota un ensemble spesso formato da vecchi e bambini che si esibivano in occasione di feste e processioni nella regione del Phetchabun in lunghe jam improvvisate.

Qualche anno fa un produttore  americano scovò su youtube una serie di video – in uno c’è una acidissima Zombie dei Cranberries! – e da lì sono nati due album, il primo strepitoso Electric Phin Band e il secondo intitolato semplicemente II. Ascoltare per credere.

In Bloom

“Un uomo di genio non commette sbagli. I suoi errori sono volontari e sono i portali della scoperta.”

E’ il 16 giugno di 113 anni fa il giorno in cui Leopold Bloom si incammina per le strade di Dublino (e il giorno del primo appuntamento tra James Joyce e la giovane cameriera Nora Barnacle futura musa e moglie dello scrittore irlandese) . Nell’odissea linguistica dell’Ulysses la parola si fa continuamente musica. Una ricerca della musicalità che aveva caratterizzato lo scrittore sin dagli esordi: una delle sue prime raccolte di poesie è intitolata ‘Chamber Music’ e attinge a piene mani alla poesia e alla musica iraniana. In questa raccolta è presente la poesia ‘Golden Hair’ che sarà messa in musica da Syd Barrett. Originariamente pensata per essere inserita nel primo disco dei Pink Floyd trovò posto su disco solo nel 1970 nell’album solista ‘The Madcap Laughs’.

 

 

Dark Orange

La prima volta che sono stato in Provenza puntai dritto ad Orange. Era marzo, il mistral rendeva tersissimo il cielo e la luce dominava il paesaggio nonostante il freddo. Difficile nella mia testa associare alla calma e soleggiata Orange quel  concerto dei Cure tante volte ascoltato nella logora musicassetta.

E invece proprio qui, nello splendido, anche se quasi completamente ricostruito teatro romano (nell’800 sfrattarono, come ad Arles e in tanti altri posti le decine di famiglie che ci vivevano dentro per riportarlo all’antica fisionomia ) nell’agosto del 1986 si tenne il concerto immortalato nel film ‘The Cure in Orange’.
Dopo aver fatto il soundcheck con una versione di ‘Set the controls for the heart of the sun’ dei Pink Floyd (echi del concerto tra le rovine di Pompei?) e la gag con Simon Gallup che toglie la parrucca a Robert Smith svelandone un’inconsueta corta capigliatura una scaletta che mescola il dark più ortodosso dei primi album alle prove più pop e ballabili dei non sempre irreprensibili dischi successivi. Film, che uscito all’epoca in VHS, per qualche misterioso motivo, in quest’epoca dove si raschia il barile con versioni deluxe, rimasterizzazioni, scarti di studio e similia, non è mai stato riedito in DVD.