Gotico italiano

Le sonorità gothic trovarono in Italia, e in particolare a Firenze, terreno fertilissimo con la neonata I.R.A. Records che produsse i primi dischi di Litfiba, i Moda di Andrea Chimenti, gli Underground Life di Giancarlo Onorato e i Diaframma di Federico Fiumani che con l’arrivo del cantante Miro Sassolini realizzarono l’ellepì Siberia, uno dei migliori album della dark wave di casa nostra.

Glad Bad Sad & Mad

La prima cosa che si notava dei Living in Texas (inglesissimi a dispetto del nome) era Mathew Fraser, il batterista. Focomelico, aveva due buchi nelle maniche della maglietta per afferrare meglio le bacchette, ma nonostante l’handicap fisico suonava con incredibile agilità. La loro passione per la musica ebbe la meglio per qualche anno sul loro status di morti di fame e anche di freddo, come ricorda chi li vide in azione a Firenze e a Genova nel freddo inverno dell’85. La loro interessante miscela di post-punk e goth-rock si esaurì in pochi album e diversi singoli ed EP tuttora di difficile reperibilità anche in rete. Un ingeneroso silenzio sulla band e sui suoi componenti fatta eccezione per Mat Fraser che negli ultimi anni si è ritagliato il ruolo di attore e performer (inclusi improbabili strip-tease in cui si stacca le protesi alle braccia).

Gotico americano

Il dark o gothic è stato un fenomeno musicale prettamente europeo. Uno dei pochi gruppi provenienti da oltreoceano, da San Francisco, furono i Tuxedomoon che dopo l’ottimo Half-Mute, nel 1980, si trasferirono, visto lo scarso successo commerciale, in Europa dove trovarono maggiori estimatori: i synth, il sax, il violino, l’uso della voce davano alla musica dei Tuxedomoon un aspetto del tutto originale e disturbante che continuerà nelle prove successive pur non raggiungendo i vertici di Half-Mute e del seguente Desire (1981).

 

La guerra fredda

Il post-punk britannico attecchì rapidamente in Francia e Siouxie fu la madrina riconosciuta della scena locale etichettata come cold-wave. A Lille si formò il quartetto dei Guerre Froide che vivacchiò un paio d’anni al principio degli ottanta: un tour, un album (Cicatrice) e un 12″ eponimo. Tempo di guerra fredda e di blocchi contrapposti, forte l’immaginario del Muro e della capitale tedesca divisa, fresca la lezione della trilogia berlinese di Bowie: il 12″ conteneva l’ottima Demain Berlin che in tempi di Youtube è ritornata a galla dando alla band di Yves Royer, Gilbert Deffais, Patrick Mallet e Fabrice Fruchart la celebrità postuma.

L’abito non fa il monaco

“Se hai bellezza e nient’altro, hai più o meno la miglior cosa inventata da Dio”.
Il poeta e drammaturgo Robert Browning e sua moglie, la poetessa Elizabeth Barrett Browning, vissero a Firenze dal 1847 al 1861. Risalgono a questo periodo la maggior parte dei suoi monologhi drammatici, in particolare Fra Lippo Lippi, dedicato al grande pittore del quattrocento, monaco truffaldino e licenzioso.

E al monologo di Browning si ispirerà un trio norvegese, quando nel 1981 darà alle stampe il primo album ‘In silence’. La splendida copertina racchiude un album notturno, freddo, invernale, con i fantasmi dei Joy Division che appaiono e scompaiono in continuazione. Uno sprofondare traccia dopo traccia sotto una nevicata sempre più insistente e silenziosa.

‘In silence’ rimase una piccola gemma senza seguito. Campare di note non è facile e così da lì a poco un paio di membri del gruppo, diventato nel frattempo un quartetto, non sentendosela di lasciare il proprio lavoro per rischiare la carriera musicale si tirarono fuori dalla partita.

Il duo superstite s’incamminerà su una via più accessibile e pop. Brani come
“Shouldn’t have to be like that”, “Everytime I see you” e “Light and shade” saranno i loro maggiori successi commerciali elevandoli al ruolo di star nelle Filippine del dopo Marcos. Nel 1988 metteranno a segno sei sold out consecutivi a Manila. Quanto di più distante si possa immaginare dalle brume del paese dei fiordi e da quel loro ottimo esordio.

Dark Orange

La prima volta che sono stato in Provenza puntai dritto ad Orange. Era marzo, il mistral rendeva tersissimo il cielo e la luce dominava il paesaggio nonostante il freddo. Difficile nella mia testa associare alla calma e soleggiata Orange quel  concerto dei Cure tante volte ascoltato nella logora musicassetta.

E invece proprio qui, nello splendido, anche se quasi completamente ricostruito teatro romano (nell’800 sfrattarono, come ad Arles e in tanti altri posti le decine di famiglie che ci vivevano dentro per riportarlo all’antica fisionomia ) nell’agosto del 1986 si tenne il concerto immortalato nel film ‘The Cure in Orange’.
Dopo aver fatto il soundcheck con una versione di ‘Set the controls for the heart of the sun’ dei Pink Floyd (echi del concerto tra le rovine di Pompei?) e la gag con Simon Gallup che toglie la parrucca a Robert Smith svelandone un’inconsueta corta capigliatura una scaletta che mescola il dark più ortodosso dei primi album alle prove più pop e ballabili dei non sempre irreprensibili dischi successivi. Film, che uscito all’epoca in VHS, per qualche misterioso motivo, in quest’epoca dove si raschia il barile con versioni deluxe, rimasterizzazioni, scarti di studio e similia, non è mai stato riedito in DVD.