I dublinesi

“If I die, I die”. Questo il titolo tautologico del miglior disco dei Virgin Prunes. Un disco fuori dal tempo, tribale e tecnologico, capace di rendere palpabile, quasi visibile, la componente teatrale dei loro concerti. Le voci di Gavin Friday, Guggi e Dave-Id (segnato nella voce e nel fisico da una meningite infantile) imbastiscono i loro occulti cerimoniali. E non è da meno la controparte strumentale capace di passare dal rumorismo più sperimentale a suoni new wave e danzerecci.

A differenza del gruppo dublinese per eccellenza, gli U2, cui erano strettamente legati (il chitarrista dei Virgin Prunes è il fratello di The Edge e fu Gavin Friday ad appiccicare al cantante degli U2 il fortunato nomignolo di Bono Vox) durarono molto poco vittime delle forze centrifughe che animavano i membri del gruppo: anni fa un tale mi raccontò di averli visti addirittura venire alle mani dopo un concerto tenuto a Firenze nel febbraio dell’82.

Non si scappa da se stessi

La fuga di Adrian Borland finì tragicamente nell’aprile del ’99 quando si gettò sotto un treno alla stazione di Wimbledon. Uno sconvolto Mark Burgess, cantante dei Chameleons, decise di continuare il tour che l’amico stava portando avanti e in seguito di riformare la band che registrò l’acustico ‘Strip’.

La fuga nei tunnel della depressione, era iniziata tanti anni prima quando ancora cantava con i suoi The Sound. Non era bastato quel piccolo capolavoro che è Jeopardy, aperto dalla splendida (e a posteriori infausta) ‘I can’t escape myself’ e disseminato di tante piccole perle post-punk e new wave, ad aprirgli le porte sempre ingiuste del successo.

Prendiamo ad esempio il concerto antinuclearista di Utrecht del 1982 pubblicato con altri quattro concerti tenuti in Olanda come The Dutch Radio Recordings:  ci sono gli U2, ci sono i Sound. I primi hanno dato alle stampe due dischi ancora acerbi, Boy e October,  i secondi i più compiuti, ma ovviamente presto dimenticati e a maggior ragione da riscoprire, Jeopardy e From the Lions Heart