La debolezza è potenza

“La debolezza è potenza, e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido, così come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza.”

Per fare un’ottima fantascienza non c’è bisogno né di robot, né di astronavi, né di macchine del tempo. Stalker, prima di diventare triste sinonimo di molestatore è uno dei capolavori di Andrej Tarkovskij. E lo stalker in questione è la guida che porta nell’inviolabile Zona due uomini, lo scritttore in crisi di ispirazione e il professore che aspira a vincere il Nobel. Entrambi sono alla ricerca della fantomatica Stanza, luogo dove possono avverarsi i desideri più intimi e segreti . E qui mi fermo onde evitare indesiderati spoiler.

Aggiungo che la colonna sonora del film, realizzato nel 1979, è del compositore sovietico Eduard Artemyev che negli anni ’60 cominciò a lavorare con i primi sintetizzatori musicando anche altre due pellicole di Tarkovskij, Solaris e Zerkalo. Ed è proprio la musica elettronica del compositore a giocare un ruolo centrale nella creazione dell’atmosfera aliena della Zona.

Il contrappasso (Not All Blacks #1)

“Se esiste l’inferno, i fans dei Beatles passeranno l’eternità ad ascoltare questo disco”

Questa è una delle mie citazioni preferite, l’autore è Piero Scaruffi, l’uomo capace di compilare migliaia di schede relative a cantanti e band di ogni epoca e provenienza. Da adolescente ho letto avidamente i volumi della sua Storia del Rock edita dall’Arcana, immaginandomi dischi che in assenza della rete era all’epoca impossibile procacciarsi, e ancora oggi continuo a sbocconcellare le recensioni del suo sito sempre in cerca di nuove scoperte.

La citazione lapidaria del nostro riguarda una delle gemme più preziose del rock neozelandese, Harsh ’70s Reality dei The Dead C, doppio LP uscito nel 1992 ma registrato nei tre anni precedenti, aggiornamento della psichedelia degli anni ’70 all’epoca del noise e del low-fi. Beatlesiani e altre mammolette assortite sono avvertite: questo è un tour de force per orecchie allenate.

 

Presente assente

“Dialoghi del presente” è stata l’unica opera edita di Luciano Cilio, compositore d’avanguardia napoletano morto suicida nel 1983 a soli 33 anni. Fortemente impegnato su più fronti, arti visive, teatro, politica oltre ovviamente a quello musicale non solo colta ma anche rock, sue le tastiere nel memorabile ‘Aria’ di Alan Sorrenti, non ha avuto la visibilità che avrebbe meritato.

Onore all’etichetta Die Schachtel che nel 2013, trentennale della morte dell’artista ha ripubblicato quel suo unico disco con l’aggiunta di alcuni inediti.

C’era una volta l’indie

Bisogna arrendersi all’evidenza, le parole cambiano di significato e quel che oggi chiamiamo in un modo non corrisponde al significato di un tempo. Esemplare il modo in cui si è arrivati a designare con il termine hipsters, barbosi giovincelli barbuti neppure lontani parenti dei ‘bianchi negri’ che negli anni del dopoguerra ascoltavano Charlie Parker (ammesso che sappiano chi sia stato Charlie Parker).

E allo stesso modo l’aggettivo indie è passato dall’etichettare tante gloriose band, che con alterne fortune hanno attraversato gli anni ottanta e novanta, a scialbe risciacquature pop nostrane.

Date retta, non buttate via il vostro tempo e ascoltatevi gli ottimi The Van Pelt (che solo per il riferimento ai Peanuts di Charles M. Schulz meriterebbero l’encomio): quartetto newyorkese dalla vita brevissima, due soli album pubblicati a metà anni novanta Stealing from Our Favorite Thieves e Sultans of Sentiment di canzoni spruzzate di rumorismo.

La rivoluzione tranquilla (Quebec #1)

Sin dalla fine del Settecento la regione francofona del Quebec costituì, per il Canada, una fonte di forti tensioni. Una questione irrisolta fino alla Révolution tranquille degli anni sessanta e settanta, anni durante i quali il Quebec ottenne quelle riforme sociali grazie alle quali ha colmato il gap economico con il resto della nazione e la tutela della lingua e della cultura francese.

Quegli anni di grande fermento culturale e politico videro la fioritura di un’interessantissima scena musicale. Una delle mie band preferite sono gli Sloche (il nome della band suona in francese  come l’inglese slush, il termine usato per la neve fresca) con all’attivo due fantasiosi album di progressive rock J’un Oeil (1975) e Stadaconé (1976).

La Morte

Era passato sottotraccia e sfuggito ai miei radar questo disco uscito non casualmente il 2 novembre del 2012 in edizione limitatissima, solo 300 copie in vinile. La Morte è una piccola antologia di brani letti da Giovanni Succi (Madrigali Magri, Bachi da Pietra) su un tappeto elettronico ordito da Riccardo Gamondi (Uochi Toki). Nonostante l’eterogeneità degli autori scelti, Jacopone da Todi, Manzoni, Tolstoj, Sartre, Calvino, Manganelli, David Foster Wallace, il disco si mantiene intenso e coeso per tutti i quaranta minuti scarsi di durata che valgono un attento ascolto.

 

Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola

“Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola”. Parole di Hermann Göring in un’epoca dove la cultura era ancora una minaccia per il potere.  E una minaccia lo era ancora nell’America reaganiana degli anni ottanta. Quell’America che riuscì ad essere il brodo di coltura in cui si svilupparono band eccezionali. I Mission of Burma furono una di queste: troppo diversi da tutti e troppo distanti dal solito rock per poter sopravvivere a lungo. Formatisi a Boston nel 1978 alla canonica strumentazione chitarra, basso, batteria aggiungevano le manipolazioni elettroniche del misterioso Martin Swope, personaggio che fino all’ultima esibizione della band non comparirà mai sul palco!

Anche il bassista Clint Conley, che si divideva al canto con gli altri due componenti del gruppo, Roger Miller e Peter Prescott, era terrorizzato dal palco, ma non potendo esimersi dal presentarsi davanti al pubblico si rifugiò presto nell’alcol  (e la claustrofobica Mica, dall’album Vs del 1982, parla della sua esperienza in un centro di recupero). In bilico tra pop e noise il gruppo durò il tempo di una manciata di singoli, EP e quell’unico LP, Vs.

Nel 1983 si sciolsero ufficialmente per i problemi di acufeni di Roger Miller (già nei barrettiani Sproton Layer e che tornerà poi coi Birdsongs of Mesozoic).

Nel 2011, dopo diciotto anni di silenzio, sono tornati in azione grazie anche alla pubblicità postuma fornitagli dalla cover di Moby della loro That’s when I reach my revolver.

L’inverno di Praga

Il 20 agosto del 1968 i carrarmati sovietici entrano in Cecoslovacchia mettendo fine al Pražské jaro, la Primavera di Praga. I The Plastic People of the Universe nascono poche settimane dopo su iniziativa del bassista Milan Hlavsa. Inevitabile il richiamo a Frank Zappa, Plastic People è uno dei brani di Absolutely Free, uno dei vertici delle Mothers of Invention, ma forte sarà l’impronta mitteleuropea della band. Il primo cantante del gruppo è il canadese Paul Wilson, docente di inglese a Praga, reclutato dalla band per tradurre i testi dei Velvet Underground e dei Fugs.

La vita dei PPU sarà un lungo inverno, una vita di clandestinità. Nel 1970 il governo comunista revocherà alla band la licenza per esibirsi e il gruppo dovrà esibirsi in segreto. Alcuni membri saranno addirittura incarcerati nel ’76 dopo un festival con l’accusa di nichilismo, decadentismo e addirittura clericalismo! In difesa dei PPU e degli altri arrestati nel gennaio successivo si schiererà, con altri 246 cittadini, il futuro presidente della Cecoslovacchia, il drammaturgo Vaclav Havel, con la sottoscrizione del documento Charta 77.

L’anno dopo, nel ’78, sarà pubblicato in Francia, e all’insaputa della stessa band il loro primo disco in studio, registrazioni risalenti al dicembre del ’74 e portate all’estero da Wilson nel frattempo espulso dal paese ). Il titolo dell’album, che si richiama scherzosamente i Beatles, è Egon Bondy’s Happy Hearts Club Banned, dove Egon Bondy è il poeta cecoslovacco autore dei testi. Disco forzatamente lo-fi che è una girandola di invenzioni sonore forti anche dell’uso della viola elettrica e del theremin.

Mille gru di carta (Made in Japan #22)

1954. Sadako Sasaki è una bambina che sogna di correre. In seguito a un attacco di vertigini le viene diagnosticata la leucemia. Leucemia provocata dalla pioggia nera, le radiazioni liberate dall’esplosione nucleare sulla città di Hiroshima. Sono passati nove anni dal terribile evento ma gli effetti sono ancora devastanti.

Sadako passa quattordici mesi in ospedale. Costruisce gru di carta. Una antica tradizione dice che un desiderio sarà esaudito a chi riuscirà a costruire mille gru di carta. Sadako si aggrappa a quelle gru di carta per quei quattordici mesi di sofferenza e disperata speranza.

I Mono, gruppo post-rock giapponese, mezzo secolo dopo, nel 2004, chiuderanno l’album Walking cloud and deep red sky, flag fluttered and the sun shined con una delicata dedica alla storia di Sadako, A thousand paper cranes, episodio più malinconico del disco.

La vicenda di Sadako, cui è dedicata una statua nel parco della Pace di Hiroshima, sarà anche raccontata dallo scrittore Karl Bruckner nel libro Il gran sole di Hiroshima.

Trenodia per le vittime di Hiroshima (Made in Japan #21)

Nell’antica Grecia la trenodia era un tipo di canto funebre. Nel 1960, l’allora ventisettenne compositore polacco, Krzysztof Penderecki compose una sua personale trenodia per le vittime della bomba atomica fatta esplodere nel cielo di Hiroshima il 6 agosto del 1945.

Tren ofiarom Hiroszimy è eseguita da 52 strumenti ad arco, violini, viole, violoncelli e contrabbassi portati ai limiti del registro sonoro: dense masse soniche si abbattono sull’ascoltatore  evocando il bagliore dell’esplosione che in pochi secondi cancellò un’intera città.

Ogni anno gli hibakuska, i sopravvissuti alla bomba, sono sempre meno: diventa ancora più doveroso conservare memoria dei troppi momenti in cui l’uomo ha rinunciato ad essere umano.

Tornando al mero discorso musicale Tren ofiarom Hiroszimy è stata utilizzata anche da Stanley Kubrick in Shining e da David Lynch nell’ottavo episodio della terza stagione di Twin Peaks.